8 April 2012
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Danilo Maestosi, Alberto Sughi, il pittore del realismo esistenziale,
Il Messaggero, Roma, 1 Aprile 2012, p. 18

A 83 anni Alberto Sughi si è arreso alla malattia che da tempo gli stava togliendo ogni energia, logorando con dolori insopportabili «il piacere e la fortuna» di continuare a praticare quello che giudicava il «più bel mestiere del mondo»: la pittura. La morte lo ha stroncato in Romagna, la terra in cui era nato e nel  quale  si era   rifugiato negli  ultimi mesi e con lui l'Italia perde uno  dei  più importanti interpreti della tradizione figurativa,   come ha ricordato il presidente Giorgio Napolitano  nel messaggio alla famiglia. Tradizione nella quale aveva innestato il suo modo lucido, intenso, a volte amaro, di interpretare la tragedia e la commedia della condizione umana, e di trascriverne tensioni, cadute, tentativi di fughe, conflitti in una sorta di ininterrotto diario di lavoro che si sgrana per cicli nel corso della sua lunga carriera, registrando con impietosa ironia   tutti   gli smottamenti della   società italiana.
Alberto Sughi nasce a Cesena il 5 ottobre 1928 e si avvia giovanissimo sulla strada della pittura, da autodidatta, incoraggiato dalla madre e stimolato dallo zio che praticava con discreti risultati l'arte del pennello. Ma la maturazione avviene nell'immediato dopoguerra a Roma dove si trasferisce nel 1948 e dove, tranne qualche breve intervallo, continua a vivere, «ricompensato da una città- spiegava- che mi restituisce ad ogni passo, ad ogni angolo il senso della Storia. E mi obbliga a interrogarmi sulla mia identità».
Già, viveva di continue domande Sughi, senza mai trovare risposte definitive su di sé e sul mondo, distillando sulle proprie tele la ricerca di quello che nel 1956 il critico Enrico Crispolti aveva definito il «suo realismo esistenziale». A Roma si era subito segnalato per il suo straordinario talento per il disegno, trovando preziosa sponda nell'amicizia di Renzo Vespignani. Coinvolto nella disputa tra astrattisti e realisti aveva scelto di muoversi nel solco dell'arte di figura, dandone però una lettura completamente diversa da quella, tutta immanente, di Renato Guttuso. Al centro della sua ispirazione non la lotta di classe, per la quale ha comunque profuso il suo impegno ma l'enigma dell'uomo. Come molti della sua generazione subì alla fine degli anni cinquanta il contagioso influsso di Bacon ma senza lasciarsi contagiare dal suo cinismo e dalla sua disperazione. E senza tradire il legame forte con la schietta semplicità della sua terra e della sua famiglia, alla quale avrebbe dedicato negli anni Ottanta uno dei suoi cicli più belli. Indimenticabili le tele in cui rende omaggio alla figura del padre: il volto e il corpo di un uomo stanco, che fissa il vuoto, le gambe immerse in una bacinella.
Alberto Sughi lavorava approfondendo per lunghe fasi lo stesso tema: la solitudine urbana negli anni Sessanta, il rapporto con il verde e la Natura negli anni Settanta, le profetiche desolate profezie sul degrado della società italiana sviluppata in un'agghiacciante allegoria teatrale, e poi negli anni Ottante e Novanta la desolazione del perdere valori e anima, in un Notturno senza certezze, o l'interrogarsi sul proprio destino sulla scia di una domanda di Gauguin: «Dove andiamo?». Nel 1994 gli fu offerta la guida della Quadriennale in piena crisi. Resse pochi mesi: volava troppo alto, era troppo limpido per navigare tra quelle squallide beghe.


8 Aprile 2012

 
 
 
 
 
 
    
    

 

 

 

 

 

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