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    Mostra a Palazzo Sant'Elia
 


 

  Maurizio Calvesi
Sughi, Dove va l'uomo
saggio di presentazione all'antologica di Alberto Sughi a

Palermo, Palazzo Sant'Elia

9 Maggio - 2 Agosto 2009

Maurizio Calvesi
DOVE VA L'UOMO

Conosco da tempo la pittura di Sughi, ovviamente; da mezzo secolo, da quando ne parlavo con Arcangeli, a Bologna, nei secondi anni Cinquanta, allora però la nostra attenzione era radicalmente presa dalla vicenda dell'Informale, dalla discussione sul "naturalismo" arcangeliano, sulla connessa situazione in fieri e soprattutto su Burri, che amavamo, come amavamo Pollock; mentre io amavo, e Momi non amava, Lucio Fontana; come io amavo e Momi non amava Picasso o il Futurismo.
Sughi ci appariva fuori da quel dibattito, sebbene poi presto mi colpisse quella sua percezione di un'uscita dalla poetica del realismo tramite un espressionismo non ripetitivo ma sfiorato da alcune precocissime aperture su Bacon.
Ciò che concorreva a precludere l’apprezzamento delle forme più qualificate del realismo, nel quale Sughi veniva genericamente compreso, era, se ormai posso dirlo, l'atteggiamento della critica sostenitrice, abbastanza arrogante e faziosa, respingente, almeno in alcuni casi più aggressivi; e non disposta a concedere nulla alle avanguardie che ci appassionavano.
Finché uno dei più intelligenti di quella schiera, Marcello Venturoli, non lasciò cadere simili preclusioni (per questo perdette il posto a "Paese Sera"), e voglio ricordarlo soprattutto perché, guarda caso, un critico sensibile e dall'intelligenza aperta come la sua era stato anche il primo a scrivere su Sughi.
Tornare oggi su quelle sue opere, intensifica una forte impressione della loro qualità; prenderne le mosse per una approfondita visitazione di tutti gli sviluppi di Sughi consente di ancorare a una certezza la sensazione di essere di fronte a una personalità di forte spicco. E di valutare con uno sguardo più a lungo soffermato, l'originalità, la coerenza e la profondità di una poetica, che già avevo intravisto ma non verifìcato.
Ma poi anche di scoprire una virtù che non conoscevo di Sughi, una virtù critica, direi, ovvero la capacità di parlare della propria pittura, e della pittura più in generale, in termini di una sottigliezza assolutamente rara, fuori da ogni schema o luogo comune, e dentro a una consapevolezza di notevole lucidità. C'è un passo, nelle interviste rilasciate da Sughi con una disponibilità e larghezza che è tutt’altro che comune incontrare in un artista, e che sono sintomi di sicurezza e di chiarezza, c'è un passo in cui, interrogato se sia  l‘occhio del pittore o quello del critico il più idoneo a riconoscere il valore di un artista, Sughi risponde: quello del pittore. Sì certo, il suo occhio, non dubito; ma troppo spesso mi sono imbattuto in artisti anche grandi, del tutto incapaci di apprezzare le qualità di loro colleghi o rivali; e sono non a caso, gli artisti di questa seconda e più vasta categoria, anche i meno disponibili e forse i meno capaci di rispondere a una conversazione sulla loro arte o sull’arte tout court.
La capacità di apprezzare in modo equanime l'arte e gli artisti è cosa del tutto diversa e distinta dalla creatività. Questa seconda è propria del pittore, la prima è del (buon) "critico", ma il fatto è che "critico" , e ottimo critico, può essere anche il pittore, in alcuni casi felici come quello di Sughi.
Ma dunque, la lettura di queste interviste scoraggia a intraprendere un'analisi della sua pittura, perché tutto vi è già detto o accennato, con una proprietà e un riserbo esemplari. Dove il discorso è meno esplicito, vale la pena di cercare qualche spiraglio per entrare.
Noto, nei brani degli intervistatori, la tendenza ad attribuire al pittore gli stati d'animo, le tensioni, le tristezze, la solitudine, il "pessimismo" (parola che ricorre spesso nelle domande) dell’uomo Sughi. In altre parole a leggere in chiave di autobiografia l'intero corpo della sua pittura.
Ma questo mi sembra, garbatamente quanto decisamente, smentito dalle risposte del pittore:
II sentimento della tristezza e della solitudine che traspare attraverso un'opera d'arte non è necessariamente la tristezza e la solitudine dell'autore [...] Non ho mai preteso, d'altra parte,   di attirare l'attenzione sul mio rapporto con la realtà: ho cercato, semmai, di conoscere meglio le contraddizioni che l'uomo ha trascinato con sè, fino a oggi, fino al massimo della sua modernità. [...] Dipingendo non ho mai raffreddato il colore, o esasperato il disegno, per dare voce a un mio atteggiamento verso la realtà (fosse esso morale, psicologico o fìlosofico) attraverso i temi scelti. Intendevo solo dipingere in maniera appropriata per raggiugere il maggior grado di verità possìbile. [...] Fin dalle prime personali tenute a Roma negli anni Cinquanta, feci una curiosa scoperta: sembrava d'obbligo, a proposito del mio lavoro, parlare di tristezza e di solitudine [..]; non supponevo proprio che i miei quadri contenessero messaggi così inquietanti. [...] Non ho mai adoperato un colore grigio per sembrare più triste od uno rosa per alludere alla speranza.

 

Tratto da Maurizo Calvesi, Dove va l’uomo, pubblicato da SKIRA, Catalogo della Mostra di Alberto Sughi al Palazzo Sant’Elia di Palermo 9 Maggio 2 Agosto 2009)
Read the English version of Maurizio Calvesi's essay on Artnet
 

5 May 2009

 
 
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