08 July 2007
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Vittorio Sgarbi

Le Solitudini di Alberto Sughi

Di quale tempo è contemporaneo Alberto Sughi? Se la storia dell'arte avesse ancora una direzione e la pittura un senso, Sughi sarebbe guardato con la stessa ammirazione e con lo stesso profondo rispetto riservati a Enrico Berlinguer, come protagonista, testimone e osservatore di una storia complessa e difficile. Certo, non sono mancati, nella lunga carriera di Sughi, i riconoscimenti e le legittimazioni critiche, a partire dai suoi esordi subito dopo gli anni eroici della Resistenza. La sua formazione è nella Torino del dopoguerra, la stessa di Pavese e di Fenoglio, dominata da quella sensibilità neorealista che avrà diritto di cittadinanza nel cinema, ma non nella pittura. Eppure Sughi sente che proprio lì deve combattere, resistendo al canto delle sirene dell'astrattismo. Nel 1948 Sughi visita la Biennale ed elegge a riferimento Fougeron: "Ne parlammo appassionatamente. Non ci sfuggiva che Fougeron si riproponeva di guardare con veemenza in faccia alla realtà. Era quello che aveva sempre inconsapevolmente cercato, ma proprio dove non si poteva trovare; il distacco dell'arte dalla realtà: ecco che cosa ci aveva sempre infastidito. Nello studio che avevamo in comune, Cappelli, Caldari e io, cominciammo a dipingere nature morte piene di violenza: gli oggetti più umili erano costruiti e fissati con taglienti inquadrature. Era già un passo; quegli oggetti erano ben gli stessi della realtà quotidiana, caricati poi di una passione che li sopravanzava. Intanto si cominciava a parlare di Neorealismo e di contenuti sociali." Sughi elabora così un radicale realismo esistenziale. Ma il teatro per la rappresentazione non è né Torino né Venezia. E Roma, dove Sughi attraversa Guernica e Guttuso. Senza esserne contagiato: "Cominciai a pensare ad un pittura dove l'uomo fosse reso nella sua vera misura. Ricordavo i contadini del mio Paese e li vedevo sullo sfondo delle campagne o dei portici delle città romagnole". Agli amici di Cesena si aggiungono quelli del "gruppo di Portonaccio", Alberto Muccini e Renzo Vespignani. L'incontro è fondamentale per orientare le scelte di Sughi in favore della figurazione. Comincia lì la indisponibilità verso soluzioni formali postcubiste, cui indulgono gli stessi Guttuso e Pizzinato, ma anche verso la retorica del Neorealismo con i temi consueti delle lotte contadine e degli scontri di classe. Sughi definisce un realismo disarmato, denso di implicazioni psicologiche, senza eroi, a rappresentare una realtà degradata. E a Roma, nel 1954, alla Galleria "II Pincio" che Sughi mostra i primi frutti del suo lavoro. Ma è nel 1956 che si definisce lo scarto tra un residuo di realismo sociale e un realismo esistenziale. Lo avverte lo stesso Sughi in una intervista sull'"Unità" del 14 luglio 1956: "Al momento sono impegnato nel rendere certi aspetti della vita moderna. Faccio quadri sulle attese nelle mutue, sulle tavole calde, sui vecchi all'Eca. Mi sospinge non soltanto una fredda documentazione, ma un motivo poetico e drammatico: la società borghese, e con queste forme di organizzazione sociale, invece di rendere più agevole e comoda la vita degli uomini, le fa perdere il suo colore, la sua umanità. In certi ambienti dovrebbe avvertirsi l'alito della solidarietà umana che invece manca completamente per lasciare il posto quasi a una freddezza disumana. Di fronte a questa cronaca, io assumo una posizione critica attraverso un sentimento poetico che trasmetto ai miei pennelli [...] Il realismo non significa, a mio avviso, dipingere certi soggetti, ma dire qualcosa di inedito su di loro, dare un contributo a capire la realtà di oggi". È con questo viatico che Sughi si avvia a raccogliere l'attenzione di critici come Corrado Maltese, Antonio Del Guercio, Marcello Venturoli, Dario Micacchi. Da un lato, essi osservano le radici della sua pittura nel verismo sociale ottocentesco; dall'altro, registrano la riflessione sul linguaggio di Daumier e di Degas e io credo anche di Manet.

Valorizzando questa abile contaminazione, Lorenza Trucchi coglie le relazioni di Sughi con i pittori della "scena americana", in particolare con Hopper. La desolazione degli spazi lega le due esperienze di una iconografia tutta urbana. Del Guercio osserva: "Ad una pittura di cose si era sostituita una pittura di situazioni umane: la solitudine, non desiderata né passivamente accettata, che è il risultato dei falsi rapporti, dei contatti vacui, tra gli uomini, in un mondo dove l'alienazione predomina. In una certa misura è questa una pittura della città: nella misura in cui la città è sede, più di ogni altra tipica, della contraddizione tra apparente socialità e reale solitudine". Al limitare di questa esperienza prende avvio questa mostra che celebra cinquanta anni di pittura di Sughi, a partire da La maschera al cinema, II pugile, Cinema. Tre opere del 1958. Con soluzioni assai originali, Sughi definisce una sintesi di spazio e di luce. Prima che alla pittura, egli sembra, e non solo per i soggetti, ispirarsi al cinema.

 


Alberto Sughi, Uomo tra gli oggetti (1967)
 

Il mondo è popolato di fantasmi. In Sughi agisce potentemente la memoria di Goya. La Donna sul divano rosso del 1959 si consuma nell'inferno della sua esistenza quotidiana. Non ha scampo. Come il pugile nell'angolo del ring con lo sguardo desolato sul volto disfatto. Così appare l'umanità a Sughi, condannata a una solitudine irrimediabile, sul punto di bruciare, di disperdersi in fumo. Condivide un'analoga esperienza in quegli stessi anni Giovanni Cappelli. Sughi procede con opere come Uomini al bar o La coppia, prove di una iniziale assimilazione del linguaggio di Francis Bacon, interpretato in modo assai originale nella serie di interni con uomini e donne nude sul letto. Temi di alienazione, di incomunicabilità con i quali Sughi entra negli anni sessanta. Il male di vivere sembra togliere a questi personaggi ogni speranza di salvezza. Essi sono dannati e ogni piacere consumato, ogni approccio, che non sia dell'uomo con il cane, è rabbia, disperazione, conferma di solitudine. Con maggiore concessione narrativa di Bacon, in Interno di camera si apprezza l'infinita distanza tra l'uomo che si riveste dopo l'atto sessuale, in piedi, alle prese con il nodo della cravatta, e la donna ancora nuda seduta sul letto, forse nell'atto di allacciarsi il reggisene I due sono separati, ognuno con la propria solitudine. Pochi quadri evocano la scienza e la mancanza di senso, con maggiore evidenza. E una lunga stagione all'inferno questa serie di solitudini descritte da Sughi. Ma poi egli cerca una via di fuga in alcune opere del 1963, Il pittore nello studio, Donna che si spoglia e Donna nella stanza. In esse si assiste a una ridefinizione dello spazio con un taglio originalissimo come se il corpo fosse risucchiato in un punto ed emanasse energia, con una scia luminosa. Una tensione nuova, una riappropriazione di vita, il fuoco che si riaccende sotto le ceneri. Donna nella stanza è una vera e propria resurrezione, nel dinamismo delle linee, rispetto all'Uomo sul letto che viene implacabilmente assorbito dalla morte. Il tempo delle ricerche è finito. Con il trittico Ora storica (1964-1965) la lezione di Bacon è totalmente assorbita, depurata e restituita; e Sughi rimette insieme la dannazione dell'individuo e la critica alla società. Inizia l'importante serie di soggetti volutamente "storici", di critica sociale, veri e propri esempi, senza eguale per i tempi, di pittura civile. La corruzione del potere e la malattia della classe dirigente ispirano a Sughi alcuni capolavori. Tra essi, Politici al ricevimento, una composizione attraversata da una luce sinistra che trasforma gli uomini di potere in mostri, senza alcuna alterazione o deformazione. Lo scrive Leonardo Sinisgalli: "Sughi è di quegli artisti - come Moravia tra i nostri scrittori - a cui si vorrebbe aderire intrinsecamente, ma con i quali si riesce appena a stabilire rapporti di stima, forse anche di ammirazione, senza complicità. Tra Sughi e Moravia non c'è somiglianzà sostanziale: tanto è asciutto e meccanico Moravia, tanto è umido e organico Sughi. Ma c'è in entrambi un rifiuto netto della piacevolezza e una tendenza, una attrazione morbosa per la parte scaduta dell'uomo. La prosa di Moravia è malconcia, frettolosa, volutamente sciatta, e tale mi sembra anche la pittura di Sughi. Che, al contrario di Moravia, nemico dello stile, nemico della retorica, è invece piuttosto nostalgico di una certa classicità". In questa palingenesi della società e della storia, sia pure malate, resta comunque lo spazio per una vicenda individuale, per una vita interiore, controcanto lirico della pittura civile. In quel fertile settimo decennio Sughi concepisce anche queste liriche pure, meditazioni sull'esistenza, malinconie: ecco Uomo tra gli oggetti del 1967 o La stanza di un uomo del 1968. Lo sconvolgimento della società in quegli anni di rivolte operaie e studentesche non lo scompone. Il militante cede il passo al contemplativo in una incontrollabile alternanza. È un Sughi malinconico, nichilista, leopardiano: "La mancanza delle vive e grandi illusioni, spegnendo l'immaginazione lieta, aerea, brillante e insomma naturale come l'antica, introduce la considerazione del vero, la cognizione della realtà delle cose, la meditazione ecc. e da anche luogo all'immaginazione tetra, astratta, metafisica e derivante dalla verità dalla filosofia, dalla ragione, che dalla natura e dalle vaghe idee proprie naturalmente della immaginazione primitiva" (G. Leopardi, Zibaldone, 14 ottobre 1820). Immaginazione tetra. Ancora più radicale è la fase immediatamente successiva con l'immersione nella natura, fuga dalla società, quasi una aggiornata Pioggia nel pineto, dell'Uomo nel verde del 1972, prototipo per una serie più recente. Ma è alla metà degli anni settanta che Sughi riabilita un realismo narrativo, di forte impatto teatrale: è nel ciclo La cena, esempio pressoché unico in Italia di pittura sociale sui modelli della tradizione tedesca di Dix e di Grosz. Difficile concepire pittura più contemporanea, pronta a confrontarsi con le esperienze paradossali del cinema coevo, dal tardo Bunuel di Fantasma della libertà e del fascino discreto della borghesia al Bertolucci del Conformista. Ma con la satira e la denuncia, e con la pittura di storia convive sempre, in Sughi, l'ispirazione intimistica, la poesia dell'incontro tra un uomo e una donna: è La famiglia - L'amore - del 1981. In quello stesso anno Sughi dipinge la sua opera forse più commovente e drammatica, di eletta misura spaziale nei ritmi che cadenzano ogni figura. È La morte del padre, con la bambina in primo piano nella stanza dove la vedova piange l'uomo perduto e l'anziana madre sosta attonita davanti alla porta. Raramente un pittore ha narrato così compostamente una storia domestica di dolore, con delicatezza e pudicizia. Dall'altra parte c'è la storia, il potere, l'intreccio di politiche e affari nel rumoroso Teatro d'Italia. Sughi si misura di nuovo con la società, dopo avere risentito la forza e la verità della natura, la necessità della solitudine. La sua posizione è quella di Adelchi: "Non resta che far torto o patirlo". L'umanità o è umiliata o è degradata. Solo la morte e l'innocenza di una bambina ci restituiscono la dimensione della nuda verità delle cose. Non si può dire di più. Il Sughi degli ultimi vent'anni sembra alleggerire la tensione anche dei momenti più duri e difficili dell'esistenza attraverso la misura pausata dello spazio, in una remota riflessione sui classici, su Piero della Francesca in particolare. Lo vediamo nel Balcone sul mare del 1986, momentaneamente rasserenato davanti alla vicina presenza femminile per una volta non ostile, non nemica, una donna che noi vediamo per lui mentre guarda un paesaggio al tramonto. Irriducibile incomunicabilità anche nel piacere. E lo vediamo in quella che è forse la sua opera più alta, moderna La sera del pittore del 1987-1988, con i diversi piani stabiliti dalle pareti dello studio e dai quadri. Anche più complessa l'altra versione de La sera del pittore - Nella distanza, con un'atmosfera completamente mutata e una frenesia del segno che, sull'impianto prospettico, sembra sovrapporre la nevrosi grafica di Giacometti e l'esaltazione pittorica di Schifano (il filo rosso della luce). Altissima prova di Sughi nella tentazione di un dialogo impossibile. Così la solitudine del pittore si ritrova nella serie, annunciata dall'Uomo nel verde, Andare dove?, originali assorbimenti della figura umana nel rosso e nel verde. Sono estasi cromatiche, pitture senza tempo, poesia pura, La terrazza e Addio alla casa rossa. Arrivato a questa immersione o dissoluzione, Sughi, nell'ultimo decennio, ritorna a meditare su se stesso e, con segno molto libero, si cita, recuperando soggetti di vita quotidiana, Ai tavoli di un caffè, Locale notturno o Piano bar. Un personale Amarcord, una rinnovata Leggenda del santo bevitore. Un tornare, attraverso La stanza del tempo, alla giovinezza e ai soggetti usati dell'uomo con il cane (Una periferia, 2004) e dell'uomo che beve (La sete, 2003). Nei suoi notturni, uomini e donne, quasi statue di gesso o di cera, saranno per sempre fantasmi. Ci sarà sempre un Bar del crocevia dove una donna sola attende a un tavolo e un uomo con le valige si avvia a partire per una destinazione ignota. È il mondo di Sughi: uomini e donne che non sanno per quale ragione vivere. E che, comunque, esistono. La loro solitudine è la stessa del pittore. Ed è anche la nostra.

 

 

 
Vittorio Sgarbi, Le solitudini di Alberto Sughi, presentazione al Catalogo della Mostra Alberto Sughi, Monografica, Biblioteca Malatestiana di Cesena (Skira, Milano, 2007)  
   
   

08 July 2007

 
 
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