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Alberto Sughi Al Complesso del Vittoriano, 21 Luglio - 23 Settembre 2007

 

(Settembre, 2007) Inside Italy

Damiano Benvegnu', Liberta' Fuori Moda

Alberto Sughi è contrario alla pittura di moda. Di grazia: se il destino della moda, infatti, è – come egli stesso ironizza – nient’altro che di passare di moda, i suoi quadri vivono invece un tempo differente, fatto di complessità, di assenza («più vera presenza», come scriveva Attilio Bertolucci), di lunga durata. Quella degli uomini che lavorano nel segno di una resa invincibile, la quale li costringe ad essere onesti e fedeli a se stessi, al proprio agire, agli altri. Incontrare Sughi diventa così un’esperienza emozionante, perché si ha l’improvvisa consapevolezza – mentre si sta in mezzo ai suoi grandi dipinti poetici e solitari, ad incrociarne gli occhi luminosi – di trovarsi di fronte ad un artista che ha l’umile saggezza di sapere che i quadri «finiscono veramente solo negli occhi di chi li guarda».

Partiamo dal suo rapporto con la tradizione pittorica. «Credo che la pittura non ci sarebbe se non ci fosse la storia della pittura: questa ci dà delle cose che dobbiamo portare con noi, altre le lasciamo perché non sono più strumenti utili a comprendere il presente. Ma senza una cultura pittorica non si potrebbe dipingere. Quando sono nello studio mi sembra di avere vicino i pittori che amo e parlo con loro come se fossero ancora vivi: ad esempio, ho tenuto sul mio tavolo, per capire come non devo allontanarmi anche dalla fantasia e dall’invenzione, un manifesto di Kandinskij. Così, anche la pittura che appare lontana, al pittore può invece servire. Posso prendere dalla pittura contemporanea o anche antica una parte che magari non è la più importante, ma che serve a me per arricchire il mio modo di pensare e di essere. Questo è poi il rapporto che si ha in tutti i campi, non solo in pittura, con la storia».

Si riconosce nella definizione di “realismo esistenziale” che è stata data al suo lavoro? «Penso che tutta la mia pittura sia metaforica. Parto da un racconto circoscritto ma che in fondo contiene una metafora. Pensi al ciclo dedicato anche al mio rapporto con il partito comunista, quello intitolato Andare dove?, in cui c’è un uomo con delle valigie, dove forse dentro ci sono le cose che non può abbandonare. Lui ha abbandonato quella casa, quella ideologia, ma sa che il suo viaggio non finisce ed è costretto a portarsi dentro i suoi pensieri, quello che lo anima, quello che non deve lasciare. Credo che la cosa più importante per l’uomo sia non allontanarsi da sé stesso, vivere tutte le esperienze, ma non allontanarsi mai da quello che è».

Eppure proprio i suoi ultimi cicli sembrano essersi allontanati da quella inquietudine livida che la caratterizzava. «In pittura si cambia. L’importante è che nel cambiamento si veda la stessa “poetica”, la stessa ansietà di capire. Al tempo dei miei primi quadri, nel 1958, cercavamo quasi tutti di voler capire cosa accadeva, come si poteva uscire da una certa situazione. Oggi, invece, si esorcizza il dramma, tutto appare come fosse di facciata e in un certo modo ho voluto rappresentare anche questo. Tuttavia, se al di là delle apparenze si cerca di capire il significato del mio lavoro recente, c’è molta più malinconia. Il senso della pittura è, comunque, dire cose che durino, che finiscano negli occhi degli altri, che possano animare dei pensieri che siano anche diversi dai miei. La cosa che mi fa più felice è che coi quadri si possa comunicare. E non pretendo affatto un’interpretazione corretta: quella, in fondo, non l’ho nemmeno io. Io porto una testimonianza».

Una testimonianza fatta anche di politica, di passione civile. «Ho sempre avuto una passione civile. Ce l’ho ancora. Anche se poi l’ho vissuta in maniera non ortodossa, anzi direi anche critica: perché il pittore non può avere un amore cieco, deve avere un amore intelligente e, appunto, critico. Uno va avanti immaginando e pensando quello che deve essere. Poi la vita è molto strana: penso a chi ufficialmente voleva portare avanti una linea zdanoviana, sottomessa all’ideologia, poi magari in occasioni conviviali recitava Montale. Insomma, c’è sempre stata dentro la politica, e forse è il destino della politica, una doppiezza. Io ho sempre cercato e creduto invece che il mestiere del pittore debba anzitutto essere libero: se non è libero un pittore, che ha scelto liberamente a costo a volte di grandi sacrifici di fare quello che fa, chi può essere mai libero? Io sono innamorato della pittura, l’avrei fatta a costo di pagare. Poi sono stato fortunato e proprio per questo ho il dovere di essere fedele a me stesso».

LA MOSTRA

Alberto Sughi, la poetica della non vita borghese
La mostra antologica dedicata ad Alberto Sughi, inaugurata a fine luglio al complesso del Vittoriano di Roma (via san Pietro in carcere), rimane aperta fino al 23 settembre. L’allestimento consta di circa ottanta dipinti e una sessantina di disegni realizzati dall’artista dal 1946 a oggi. Il catalogo, edito da Skira, è a cura di Arturo Carlo Quintavalle e oltre a un intervento critico del curatore contiene un’intervista di Sergio Zavoli al maestro. Aperta tutti i giorni dalle 9.30 alle 18.45, ingresso libero. Info: tel. 066780664; www.albertosughi.com.

L’ARTISTA

Il poeta del non vivere borghese
Alberto Sughi è nato a Cesena il 5 ottobre 1928. Formatosi artisticamente come autodidatta, esordisce agli inizi degli anni ’50, scegliendo la strada di un “realismo esistenziale” legato alla realtà quotidiana ma impregnato di solitudine e angoscia, fino alla trasformazione espressionistica e formale che ha fatto della sua pittura una poetica del non esistere, del vuoto e della non vita borghese. La sua ricerca procede quasi costantemente per cicli tematici che ricordano sequenze cinematografiche, tra cui La cena (1975-1976), con un dipinto scelto da Ettore Scola come manifesto del film La terrazza, o quello (avviato nell’85) su La sera o della riflessione. Nel 2005 è stato insignito del premio Vittorio De Sica. Vive e lavora a Roma.

Damiano Benvegnù

 

 

 

 

 

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