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Alberto Sughi Al Complesso del Vittoriano, 21 Luglio - 23 Settembre 2007

 

(20 luglio, 2007) Il Mattino

Riccardo Lattuada, Alberto Sughi, L’Italia delle solitudini

A Roma la grande mostra sull’artista del realismo che interpretò le paure degli anni Sessanta

ALBERTO SUGHI - protagonista della mostra che si apre domani al Vittoriano di Roma, dove durerà fino al 23 settembre - è un artista completo, profondo, cupo, colto. Completo perché, cosa in fondo comprensibile per un pittore nato nel 1928, sono state soprattutto la figura umana e la sua rappresentazione a costituire il nodo centrale della pittura, in continuità con il movimento «Novecento» e con le altre punte dell’arte italiana del XX secolo; completo anche perché il rispetto della pittura come linguaggio, come pratica, come mestiere, sono alla base di tutte le sue opere. Profondo perché oltre l’intimismo, lo scoramento e gli enigmi dell’esistenza propri di pittori di Novecento come un Donghi o un Cagnaccio di San Pietro, Sughi è stato costretto dalla sua biografia personale - una lunga traversata della storia italiana dall’ultimo dopoguerra ad oggi - a misurarsi con orizzonti sociali nuovi, e cioè quelli dell’Italia della depressione postbellica, ma anche del boom economico, della congiuntura e poi delle decadi del benessere, di Tangentopoli e del postmoderno. E Sughi è sempre cupo: in tutte le sue opere la dimensione emotiva non è mai felice, appagata, solare, ma al massimo enigmatica, molto più spesso depressa e angosciata. L’ «Uomo solo al bar», del 1960, non ha niente dello yeyè e delle estati a tempo di twist di quegli anni: è una istantanea violenta e sfocata in un interno che possiamo trovare in un film di Antonioni; è l’immagine di un volto in cui potremmo ritrovare Sartre, gli esistenzialisti, non certo il sublime Totò che faceva loro il verso in un film di quei tempi. Come egli stesso ha dichiarato, Sughi ha molto attinto dal cinema, e di converso un certo tipo di cinema italiano lo ha molto amato. Se è vero che, come sostiene Giovanni Amendola, il ciclo pittorico dedicato alla «Cena» è un congedo immaginario della borghesia dell’Italia del miracolo economico, è per questo motivo che Ettore Scola sceglierà come manifesto del suo film «La Terrazza» uno dei dipinti di tale ciclo, ed è perciò che Mario Monicelli si ispirerà alle opere di Sughi per gli interni claustrofobici di «Un borghese piccolo piccolo». Dunque, dell’Italia dell’ultimo mezzo secolo Sughi non ci ha restituito una immagine in forma di profluvio di verbosità colte e caramellose di un Arbasino - non sai se compiaciute o distanti, o tutte e due le cose - ma un asciutto e pesante chiaroscuro, che ha fatto più volte parlare la critica di un «realismo esistenziale» prossimo agli esiti di un Hopper o di un Bacon. Dunque una pittura che, come afferma giustamente Arturo Carlo Quintavalle, ci mostra «quel senso della non-identità e in qualche modo dell’orrore dell’essere dei piccoli borghesi che è il tema dominante dei racconti del pittore». Infine, Sughi è sostanzialmente un pittore colto: a ben guardare nelle sue opere si avverte il lavorìo di uno occhio che ha scandagliato in profondità un bel continente della pittura del Novecento, e non solo quella italiana. Da Grosz, a Dix e al realismo tedesco, alle esperienze europee e americane di tale tendenza, fino al Picasso del Ritorno all’Ordine, al Guttuso e al Vespignani degli anni migliori - peraltro a momenti anche suoi compagni di strada - Sughi ha mantenuto costantemente un’idea alta della pittura e dei suoi compiti, che a prescindere dai suoi contenuti tematici e sociali lo inserisce, per istinto e per cultura, tra i grandi maestri europei del XX secolo.

Riccardo Lattuada

 

 

 

 

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